La perdita del feto nato morto va quindi equiparata alla perdita del figlio, ma con dei correttivi, dovendosi considerare che per il figlio nato morto è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale, ma non una relazione affettiva concreta.
Per tali motivi, ai fini della liquidazione del risarcimento per il feto nato morto, devono essere utilizzati i valori tabellari massimi relativi alla perdita di un figlio di giovane età, operando una riduzione del 50%.
E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione III Civile con l’ordinanza del 15 settembre del 2020 n. 19190 .
La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Tribunale di Udine nell’anno 2011, condannava ad un anno e otto mesi di reclusione la ginecologa di una giovane donna, in quanto ritenuta responsabile di aver causato, per negligenza ed imperizia, la morte del feto. In particolare le è stato rimproverato di non aver eseguito con urgenza il parto cesareo come sarebbe imposto la situazione di sofferenza fetale che un corretto monitoraggio e/o una corretta interpretazione degli esiti dello stesso oggetto di rilevamento.
La Corte d’Appello di Trieste a cui ricorreva la ginecologa, tuttavia assolveva l’imputata con la formula “perché il fatto non sussiste”.
Le parti civili proponevano quindi ricorso per la cassazione ai soli effetti civili.
La Corte di Cassazione V sezione penale, con il provvedimento n. 26997/2015, accoglieva il ricorso, annullava ai soli effetti civili la pronuncia impugnata e rinviava la controversa alla Corte competente per valore in grado d’Appello per un nuovo esame, relativo principalmente alla causa nel suo complesso, con particolare riguardo alla fase del monitoraggio del feto.
I coniugi riassumevano il giudizio dinanzi alla Corte d’Appello di Trieste, chiedendo l’accertamento della responsabilità della ginecologa e la sua condanna al risarcimento, in solido con la ASL dei danni risentiti.
La Corte d’Appello, riconosceva quindi la responsabilità, piena ed esclusiva, della ginecologa per non essere stata in grado di dedurre dal tracciato fetale le informazioni che avrebbero dovuto indirizzarla verso un parto cesareo d’urgenza, per aver somministrato erroneamente la terapia ossitocinica, per aver fatto un uso imperito della ventosa. La condannava, in solido con la ASL al risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita del feto e del danno biologico.
La Asl proponeva quindi ricorso in cassazione fondato su otto motivi di cui solo due venivano accolti.
La Corte infatti confermava, quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 12717/2015 ritenendo che “trattandosi di perdita di una speranza di vita e non di una vita”, le tabelle millesimali non erano “direttamente” utilizzabili, perché elaborati per la perdita della persona viva, ma valessero come criterio orientativo per la liquidazione equitativa del danno da perdita al frutto del concepimento subito tanto dalla madre che quanto dal padre”.