La sentenza del Tribunale di Roma n. 361/2017, offre l’occasione per soffermarsi su un argomento molto attuale, ma ancora poco trattato dalla giurisprudenza giuslavoristica, ovvero sull’interpretazione delle clausole contrattuali che prevedono emolumenti ulteriori in favore del lavoratore.
Si tratta di stabilire, infatti, se la pattuizione concernente il bonus prevista nel contratto di lavoro del ricorrente rivesta un carattere condizionale oppure se qui, alla luce del comportamento delle parti, dovesse essere interpretata quale istitutiva del diritto del lavoratore a un compenso fisso.
A fronte della crescente conflittualità emersa nell’ambito di simili questioni, soprattutto nel momento dell’estinzione del rapporto di lavoro, dove i lavoratori sono soliti rivendicare trattamenti variabili pattuiti e mai percepiti, non vi è, ad oggi, una risposta univoca da parte della giurisprudenza.
Più in particolare, il Tribunale di Roma si è trovato a dover interpretare una clausola inserita nel contratto di lavoro al momento dell’assunzione del lavoratore, concernente il diritto dello stesso al riconoscimento di un emolumento a titolo di bonus connesso, genericamente, ad obiettivi aziendali e alla singola prestazione lavorativa.
Simili obiettivi, utili a parametrare l’eventuale spettanza del trattamento variabile in capo al lavoratore che, secondo quanto pattuito, avrebbero dovuto essere comunicati con cadenza annuale, vennero, però, comunicati allo stesso soltanto sino all’anno 2012, momento a partire dal quale non vi fu più nessuna esternazione da parte dell’azienda in ordine ai criteri di erogazione del bonus.
Pertanto la questione riguardava la natura del bonus. Il giudice doveva decidere se effettivamente si trattasse di una erogazione condizionata al raggiungimento di determinati parametri e, quindi, per sua natura variabile, o, al contrario, a seguito di una valutazione complessiva delle circostanze, se dovesse essere classificata alla stregua di un compenso fisso facente parte della retribuzione contrattualmente pattuita.
A fini esplicativi, sembra opportuno analizzare più nello specifico la sentenza dalla quale si ricava come le parti, al momento dell’assunzione, avessero concordato «l’applicazione di un sistema economico incentivante articolato in obiettivi societari e performance individuali». In particolare, il ricorrente, evidenziava di aver raggiunto gli obiettivi richiesti dal datore di lavoro e, conseguentemente, di aver regolarmente percepito il bonus annuale (seppur in misura diversa) per gli anni 2010 e 2011, rispettivamente per un ammontare pari al 15% e al 20% della retribuzione annuale e che, a far data dal 2012, la resistente avrebbe omesso di comunicare gli obiettivi, impedendo l’erogazione del bonus.
In altri termini, il lavoratore, in prima istanza, segnala un inadempimento contrattuale del datore che, pur in presenza di una chiara pattuizione concernente l’obbligo di comunicazione degli obiettivi, si era astenuto dal farlo.
Il giudicante, davanti alle richieste della parte ricorrente, ai fini della statuizione sul diritto al trattamento economico contenuto nel contratto di lavoro, si è trovato di fronte alla necessità di classificare giuridicamente la clausola contrattuale secondo la quale il lavoratore, una volta ottenuti — e quantificati — gli obiettivi, ove raggiunti, si sarebbe visto riconoscere una somma a titolo di bonus.
Pertanto, appare si tratti di disposizioni contrattuali identificabili come elementi accidentali del contratto e, in particolare, alla stregua di condizioni contrattuali ai sensi dell’art. 1353 c.c che consente alle parti di subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto, ma anche di un singolo patto, ad un avvenimento futuro ed incerto.
Difatti, davanti ad un’interpretazione limitata al testo della pattuizione in esame, non vi è dubbio che l’erogazione sia ancorata ad una certa discrezionalità o, quantomeno, ad un margine di aleatorietà collegato ad elementi esterni al comportamento delle parti, le quali non sono in grado di governare tutti gli eventi dedotti in condizione. Il contenuto della determinazione datoriale degli obiettivi previsto nel contratto doveva tenere conto sia di fattori riferibili al ricorrente, concernenti la prestazione lavorativa dello stesso, sia di fattori afferenti alla performance economica dell’azienda. Si tratta, quindi, di elementi non influenzabili, o solo in parte influenzabili, dal comportamento delle parti, sulle quali grava, comunque, l’obbligo di agire in buona fede in pendenza della condizione ai sensi dell’art. 1358 c.c.
Venendo all’interpretazione fornita dal giudicante e agli strumenti ermeneutici utilizzati per addivenire alla stessa, si evidenzia come, il Giudice capitolino, nel decidere sul diritto a ricevere il trattamento economico stabilito nella pattuizione individuale ed, eventualmente, sul titolo giuridico fondante il suo percepimento, non si sia limitato ad un’interpretazione letterale della clausola contrattuale sul bonus (art. 1362, co. 1 c.c.), dalla quale la natura condizionale del compenso, come detto, poteva apparire scontata, ma abbia, opportunamente, prestato particolare attenzione al canone esegetico previsto dal secondo comma dell’art. 1362 c.c., ossia al comportamento tenuto dalle parti nell’esecuzione del contratto.
Il Tribunale romano, nell’interpretare il contratto, pur facendo espressamente ricorso ad entrambi i criteri interpretativi di cui all’art. 1362 c.c., ha riconosciuto un’importanza preponderante al canone esegetico previsto nel secondo comma del citato articolo. Ciò appare evidente in alcuni passaggi della sentenza, laddove il giudicante, dopo essersi soffermato sulla formulazione letterale della clausola contrattuale concernente il bonus, afferma che «la condotta delle parti successiva alla pattuizione (…) deve essere considerata quale criterio esegetico della effettiva volontà delle stesse».
In termini concreti, l’interprete, dopo aver premesso l’assenza della quantificazione del bonus in sede contrattuale, pone l’accento sulla circostanza che lo stesso, quando riconosciuto, si fosse differenziato nel suo ammontare (in particolare, 15% nel 2010 e 20% nel 2011), salvo, poi, non essere più erogato dal datore di lavoro.
Sulla base delle su esposte premesse, la domanda di parte ricorrente è stata rigettata evidenziando come l’emolumento fosse «dichiaratamente collegato dalle parti a due condizioni: il generale andamento economico della società, da un lato, e le performance lavorative del ricorrente dall’altro».
Pertanto, data la crisi finanziaria nella quale la società versava nel periodo in cui il trattamento non era stato erogato si è resa palese che il lavoratore non avesse diritto a nessun ulteriore emolumento.
Secondo il giudice, infatti, la volontà delle parti,era chiaramente quella di collegare l’erogazione del trattamento variabile non ad uno ma a più eventi, per mezzo di quella che viene definita una condizione «cumulativa». Da ciò discende che, anche laddove la prestazione lavorativa fosse stata pienamente provata, l’effetto causale collegato all’avveramento della condizione (erogazione del bonus), non avrebbe comunque potuto aver luogo, vista la mancata concretizzazione dell’evento consistente nel raggiungimento di una certa performance dell’azienda.