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“Separati in casa”: per la legge si è ancora marito e moglie?

La sentenza in commento riguarda una coppia, marito e moglie, che confronta davanti al presidente del Tribunale di Como, nell’ambito di un procedimento di separazione personale.

Le condizioni della separazione si basano economicovano sulle modalità e sull’entità del contributo al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e sulla gestione dell’habitat familiare, non prevedendo null’altro circa le attribuzioni reciproche, essendo i coniugi indipendenti a livello. I coniugi avevano poi convenuto di proseguire la convivenza a tempo indeterminato, ovvero fino a quando le condizioni economiche reciproche non ammesse a reperire una diversa soluzione abitativa. Insomma, previsti coniugi “separati in casa”.

Proprio in ragione della prosecuzione della convivenza, il Tribunale ritiene di non omologare l’accordo.

Il Tribunale è chiamato a un ordinamento con la compatibilità con gli accordi tramite i quali intendono addivenire alla loro normativa del nostro ordine. Questo compito rappresenta infatti la finalità del decreto di omologazione a maggior ragione laddove vi è la presenza di figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti.

Dal momento che la manifestazione della volontà dei coniugi incide sui diritti soggettivi, l’attività e la funzione di controllo attribuita al Giudice è coerente con la natura negoziale (ancorché non contrattuale) del consenso espresso dai coniugi di volersi separare.

Tale potere deriva all’organo giudicante direttamente dall’art. 158, comma 2, cc, che sancisce che la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del Giudice
e che quando l’accordo dei coniugi relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’ interesse di questi, il Giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modifiche da adottare nell’interesse dei figli.

In caso di soluzione non idonea per l’interesse dei figli, poi, il giudice può non accordare la separazione.

Alla base del rigetto da parte del Tribunale di Como, vi è la condizione separativa che prevede la continuazione della convivenza dei coniugi nella casa familiare a tempo indeterminato.

L’indeterminatezza di tale termine, in questo caso, è rappresentata dall’avverarsi della circostanza del raggiungimento da parte dell’uno o dell’altro coniuge di un futuro miglioramento della condizione economica che consenta ad uno dei due il reperimento di altra sistemazione abitativa.

In primis, dunque, il Tribunale eccepisce la mancata previsione e apposizione di un tempo determinato, neppure indicativo, entro il quale uno dei due coniugi lascerà l’abitazione familiare.

L’impossibilità di dedurre e supporre qualche elemento temporale in tal senso, dipende dal fatto che l’avveramento di tale condizione è subordinato da parte dei coniugi al miglioramento economico in capo ad uno dei due.

Ma dato che, osserva il Tribunale, le parti sono lavoratori autonomi ed hanno un reddito pressochè stabile, non avendo altresì indicato le ragioni di un loro eventuale auspicato incremento reddituale, il termine da loro apposto per il rilascio della casa familiare rimane del tutto indeterminato ed incerto, avallando, in questo modo, il perdurare della loro protratta convivenza.

In buona sostanza, la decisione del Tribunale di Como di non accordare ai coniugi le condizioni del ricorso consensuale delle parti, si basa sui principi della normativa in materia familiare e sugli istituti giuridici che la regolamentano.

Se, infatti, da una parte i coniugi, dal punto di vista personale, hanno la facoltà di comportarsi come meglio credono, dall’altra non possono piegare ed adattare un istituto giuridico al loro stile di vita cercando di ottenere riconoscimento giuridico in relazione a situazioni in netto contrasto con i principi che ispirano la normativa in materia familiare.

Tra i doveri matrimoniali previsti dal nostro ordinamento, in particolare dall’art. 143 c.c., vi è anche quello della coabitazione.

Pertanto, in vigenza di coabitazione non può esservi alcuna separazione né giudiziale né consensuale. L’accordo privatistico che regolamenta la condizione di “separati in casa”, dunque, sarebbe svincolato dai riferimenti normativi oggettivi snaturando l’istituto della separazione.

Quanto, invece, all’altra sentenza della Cassazione correttamente richiamata dal Tribunale di Como, ovvero la n. 9287/1997, risulta chiaro lo stesso principio secondo cui l’art. 711, comma 4, c.p.c. attribuisce alla omologazione l’effetto giuridico di rendere efficace la separazione consensuale.

In altre parole, l’accordo diventa parte costitutiva della separazione solo ed in quanto questo sia accordato dal Tribunale cui spetta il compito di controllare e verificare che i patti tra i coniugi siano conformi ai superiori interessi della famiglia.

È, dunque, sulla base di questo potere/dovere attribuito dalla legge al Giudice, che il Tribunale comasco ha ritenuto la prevista continuazione a tempo non determinato della convivenza tra i coniugi del tutto incompatibile con l’istituto stesso della separazione.

Va, inoltre, segnalato che con la rivoluzionaria sentenza 20 marzo 2000 n. 3323, la Corte di cassazione ha stabilito che i coniugi “separati in casa” possono ottenere sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio pur avendo continuato a convivere sotto lo stesso tetto durante la separazione legale.

Ciò in quanto, a parere della Suprema Corte, ciò che è rilevante è che non ci sia stata una riconciliazione intesa come “comunione spirituale” ma piuttosto una condizione di vera e propria separazione durante la quale ognuno dei coniugi ha provveduto alle proprie necessità in modo autonomo, dividendo la casa coniugale in due ambienti distinti, consumando pasti separatamente e dormendo in camere separate.

Sulla base di quanto esposto, risulta ancora più evidente che il margine interpretativo e applicativo del Giudice circa sulla validità o meno di un accordo tra coniugi, è piuttosto ampio e vincolato al caso concreto che di volta in volta il Tribunale è chiamato ad esaminare.

Ad onor del vero, il Tribunale di Como non ha omologato l’accordo che contemplava la separazione dei coniugi in costanza di convivenza per molteplici ragioni giuridiche e sostanziali, laddove, invece, la Cassazione nella citata sentenza, è stata chiamata a valutare solo l’aspetto della natura dell’affectio maritalis, cioè gli effetti civili dell’accordo matrimoniale, e della sua sussistenza o meno in caso di prosecuzione della convivenza sotto lo stesso tetto ai fini della compatibilità con la pronuncia sul divorzio.

Ma è anche vero che se la sentenza comasca si appella per il proprio diniego all’omologazione, ai principi di ordine pubblico, è indubbio che la mancata ripresa della convivenza tra la separazione e il divorzio è anch’essa regola di ordine pubblico ai fini della emanazione della sentenza che sancisce lo scioglimento definitivo del vincolo.

Pertanto, emerge una eventuale possibilità di ottenere l’omologazione di un accordo separativo laddove alla prevista continuazione della convivenza venga apposto un temine temporale e breve, strettamente necessario per consentire al coniuge di trovarsi un’altra sistemazione abitativa.

Morale della favola: due coniugi “separati in casa” per ottenere la separazione devono darsi delle “scadenze” per mettere fine definitivamente alla loro vita insieme sotto lo stesso tetto.

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